Hana-bi - Fiori di fuoco (Takeshi Kitano, 1997)

La vita di Nishi, poliziotto duro e taciturno, sembra precipitata in una spirale senza uscita: la figlioletta è morta; la moglie è malata terminale; il suo partner Horibe rimane paralizzato dopo una sparatoria; Tanaka, un altro collega, viene ucciso in uno scontro a fuoco; lui stesso è costretto a lasciare il lavoro; e in più ha contratto un grosso debito con uno strozzino della yakuza. L’uomo decide allora di rapinare una banca, di usare il denaro per estinguere i debiti (oltre che per aiutare economicamente la vedova di Tanaka e l’amico Horibe, delle cui disgrazie si sente responsabile) e di partire con la moglie per un ultimo e disperato viaggio attraverso il Giappone e verso il nulla, inseguito sia dagli yakuza, che vorrebbero tutto il suo denaro, sia dagli ex colleghi della polizia. Con questo straordinario e commovente film, meritatissimo vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia e capace di fondere mirabilmente due anime apparentemente contrapposte (una più secca e violenta e una più contemplativa e compassionevole, dove le emozioni si nascondono dietro una maschera di lancinante impassibilità), il genio di Kitano si è finalmente fatto conoscere anche dal grande pubblico occidentale: in precedenza i suoi film erano da noi passati soltanto a “Fuori orario”; i lavori successivi, per lo meno fino a “Zatoichi”, sono invece usciti anche nelle sale cinematografiche, prima che l’avvento dei multiplex e l’attuale riflusso hollywoodiano gli sbarrasse di nuovo le porte (a lui e al cinema asiatico in generale).

 Il tema principale del film, naturalmente, è la malattia: quella di Horibe, il poliziotto rimasto paralizzato e abbandonato dalla propria famiglia (interpretato da un toccante Ren Osugi), e quella di Miyuki, la moglie di Nishi. Rispetto a “Violent cop”, dove già l’argomento affiorava, Kitano lo affronta in maniera più diretta e consapevole, anche per averlo vissuto in prima persona con la lunga convalescenza seguita al drammatico incidente in moto di cui era rimasto vittima nel 1994. Proprio nei mesi trascorsi in ospedale Kitano aveva cominciato a dipingere, aggiungendo un’altra capacità alle numerose e versatili doti che testimoniano della sua natura di artista a tutto campo (cabarettista, comico, conduttore televisivo, scrittore, attore, regista, musicista, ballerino…). E i suoi quadri compaiono diffusamente lungo tutta la pellicola: non soltanto appesi sulle pareti dei più svariati ambienti (nel bar, nel ristorante, nell’ospedale, nella banca, persino nell’ufficio degli yakuza) ma anche riprodotti nei disegni e dipinti naif realizzati da Horibe, che presentano una bizzarra commistione fra flora e fauna e che a volte vengono visualizzati come immagini mentali prima ancora di essere effettivamente messi su carta. A differenza di Nishi, che segue fino in fondo la sua strada verso la morte, Horibe – pur paralizzato – riesce lentamente a mettere da parte gli impulsi autodistruttivi e trova proprio nell’arte la pace e un nuovo scopo per vivere: lo dimostra la scena in cui, dopo aver dipinto un paesaggio innevato sui cui spicca l’ideogramma rosso che significa “suicidio”, lo cancella con una spruzzata di colore (disorientando peraltro per un attimo lo spettatore con il dubbio che l’uomo si sia invece davvero suicidato). Gli inserti con Horibe, che fanno da continuo contrappunto e scorrono in parallelo con le sequenze legate a Nishi, servono dunque a fornire almeno in parte uno sbocco positivo alla pellicola.


Anche in un film così tragico e disperato, comunque, Kitano trova il modo di scherzare e di inserire – oltre a tocchi di malinconica poesia (Nishi che osserva il triciclo e le ciabattine da bambino nell’androne, oggetti che evocano il ricordo della figlia perduta) – anche momenti di irresistibile umorismo, con personaggi-macchiette (lo sfasciacarrozze e la sua assistente, il tizio con il furgoncino), situazioni buffe (Kitano e la moglie alle prese con l’autoscatto, con la buca nella neve, con il gioco delle carte da indovinare) e sequenze cariche di leggera ironia (Horibe che si prova il basco e poi lo mette da parte, Miyuki che mangia il dolce del marito); persino le scene di violenza assumono talvolta risvolti comici e caricaturali (i due lavoratori al parcheggio che imbrattano la macchina di Nishi, l’uomo sgarbato sulla spiaggia, lo sgherro yakuza colpito dal killer con un vaso), mentre altre brillano naturalmente per l’asciuttezza, il realismo e le folgoranti trovate registiche (la sparatoria in cui muore Tanaka, quella di cui resta vittima Horibe, lo sterminio degli yakuza in macchina). La violenza è spogliata di ogni spettacolarità e mostrata come un atto quasi necessario: scoppia all’improvviso e si conclude altrettanto rapidamente, spesso restando addirittura fuori scena. Molte sequenze riecheggiano, stravolgendole, altre già viste nei film precedenti del regista: la rapina in banca, per esempio, ricorda quelle tentate senza successo dal protagonista di “Getting any?”; la caduta nella neve fa pensare alle buche scavate nella sabbia in “Sonatine”; il viaggio verso la morte richiama quelli di “Violent cop” e dello stesso “Sonatine”, ma il suicidio finale appare qui ancor più inevitabile: non una fuga ma quasi un obbligo morale.

A una prima parte incentrata sul ricordo (con continui salti temporali nel montaggio, come nel flashback della sparatoria nel mezzanino della metropolitana) ne segue un’altra che racconta il viaggio intrapreso da Nishi con la moglie attraverso il Giappone. Anche in questo caso, però, lo spostamento non è solo spaziale (i luoghi turistici, le montagne, il mare) ma pure temporale (vengono attraversate tutte le stagioni: la primavera, con i ciliegi in fiore; l’estate, con i fuochi d’artificio; l’autunno, con la spiaggia spazzata dal vento; l’inverno, con il manto di neve). Come spesso capita nel cinema di Kitano, il percorso si conclude davanti al mare. Qui il mutismo quasi insopportabile della coppia, che comunica con gli sguardi e i gesti più che con le parole, si scioglie finalmente nella conclusione più naturale: il ringraziamento da parte della donna per l’amore e la tenerezza che il marito ha saputo donarle nei suoi ultimi giorni di vita, con i due colpi di pistola che bloccano per un attimo la struggente colonna sonora di Joe Hisaishi ma non il rumore delle onde, il tutto di fronte allo squardo stupefatto e innocente della bambina (Shoko Kitano, la figlia di Takeshi) che gioca con l’aquilone. “Io non ce la farei mai a vivere così”, commenta, a mo’ di epitaffio, il poliziotto giovane (Susumu Terajima). La regia offre spesso soluzioni sorprendenti (la rapina in banca mostrata attraverso la registrazione delle camere di sorveglianza), e non si fa problemi a utilizzare inquadrature “impallate” (la nuca dell’infermiera all’ospedale) o arditi movimenti di macchina (l’auto degli yakuza inquadrata in rotazione dall’alto). Come attore Kitano sarebbe del tutto improponibile secondo gli standard occidentali: non parla, fa continuamente smorfie, ha un tic sul volto, cammina in modo sgraziato; eppure riesce a dar vita a un personaggio carico di un’umanità immensa, violento con i violenti, dolcissimo con la moglie, generoso con gli amici, tormentato dai sensi di colpa. Il titolo originale significa “Fuochi d’artificio”, ma il trattino separa le due parti, rispettivamente “fiore” e “fuoco”, ovvero la vita (la natura, i dipinti di Horibe) e la morte (la distruzione, le armi da fuoco). In Italia la pellicola uscì con il titolo non tradotto anche per evitare confusione con l’omonimo film di Leonardo Pieraccioni, che allora era nelle sale.

SCRITTO DA CHRISTIAN http://tomobiki.blogspot.it

Interpreti: Kayoko Kishimoto, Ren Osugi, Takeshi Kitano Regia: Takeshi Kitano Paese di produzione: Giappone Audio: ITA Data: 1997 Durata: 100' min Titolo originale: HANA-BI

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